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Isabella Giomi

L'amore non finisce, si trasforma: la sacralità delle relazioni.



Spesso quello che cerchiamo in una relazione è qualcosa che la nostra mente ci fa credere che manchi in noi stessi, principalmente felicità e completezza. Sul piano più sottile delle cose, invece, la felicità è una nostra scelta, e la completezza ci viene offerta in dote gratuitamente alla nascita, parte integrante del nostro potenziale umano.


Contrariamente ai sogni di gloria che siamo stati abituati a considerare reali, ogni relazione che troviamo sul nostro cammino - sentimentale, affettiva o lavorativa - non è un’occasione di felicità gratuita, ma la possibilità di compiere la scelta consapevole di riconoscere, nelle difficoltà che possono nascere dall’incontro con l’Altro, una chiave evolutiva.


In ogni persona con cui entriamo in relazione, infatti, si trova uno specchio di noi stessi: quelle che percepiamo come diversità, in realtà non sono altro che un qualcosa di complementare, verso cui possiamo scegliere di stabilire un approccio da eterni studenti.


In quello che vediamo nell’Altro, risiede così la preziosa possibilità di riscoprirci continuamente e di scovare gli ostacoli che ci separano dal perdono di noi stessi, e dalla guarigione. In breve, attraverso l’Altro possiamo concederci di crescere, insieme, riconoscendo il fondamentale impatto evolutivo che possiamo avere su chiunque incontriamo sul nostro cammino, essendone al contempo insegnanti e allievi.


Ma come reagire quando questo meccanismo in qualche modo si rompe? Come possiamo far fronte al dolore, alla rabbia, al senso di fallimento che la fine di una relazione porta inevitabilmente con sé?



Il modo migliore in cui possiamo affrontare una crisi, di qualunque natura essa sia, è agendo da alchimisti. Facendo nostra quell’arte antica, misteriosa e incredibilmente fertile che nasce dalla trasformazione della materia; dalla capacità di sublimare le cose, aiutandole, col nostro agire consapevole, a elevarsi da uno stato all’altro.


Trasformare la materia, nel caso di una relazione giunta al termine, significa guardare oltre gli scorci offerti dalla paura, dalla rabbia, dal rancore, e scegliere di vedere davvero. Solo in questo modo, attraverso un cambio radicale di prospettiva che smantelli i nostri sistemi mentali, possiamo renderci conto che quel termine è solo un pit-stop. Un’area in cui l’amore si è soffermato per riposarsi, un’area da cui, contrariamente alle nostre aspettative, è uscito vivo, ma semplicemente trasformato.


Ciò che ci fa soffrire nasce dalla nostra incapacità di vedere, nel tumulto emotivo scatenato da una rottura o da un rifiuto, che l’amore non muore con la separazione, si trasforma soltanto. L’incontro tra due persone è infatti un compito che il destino ci assegna come un’opportunità, sacra e mai casuale, per lavorare su noi stessi, imparando a rivelarci, ad accettarci, e di conseguenza a crescere.


Quando la vicinanza non è più utile alla formazione reciproca, quando impedisce anziché facilitare l’ascolto dell’altro, ci si separa. In questo senso, la separazione non è un fallimento, ma diventa anzi parte integrante di un piano perfetto e superiore per continuare a promuovere la crescita comune. Nella distanza, infatti, possiamo imparare ciò che non saremmo riusciti a imparare restando nella relazione, e scoprire una nuova forma di comunione, connettendoci con noi stessi e con l’altro a un livello diverso, oltre la presenza fisica e i muri di quelle ferite che non siamo riusciti a guarire insieme.


È in questa presa di coscienza che sta la nostra salvezza, oltre che una chiave fondamentale per la nostra evoluzione.


Foto di Sara Lorusso

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