“La primavera arriva in una pioggia di lacrime”: scambio di appunti con Francesca Cerfeda
- Laura Rositani
- 7 giorni fa
- Tempo di lettura: 4 min

“La primavera arriva in una pioggia di lacrime”: Non è una frase mia, ma di Clarissa
Pinkola Estès, tratta dal suo libro Donne che corrono coi lupi, più precisamente dal capitolo
dedicato alla fiaba “La donna scheletro”, un racconto del folklore del Grande Nord Artico.
Credo di aver letto innumerevoli volte questo racconto, in età diverse, in momenti evolutivi
differenti, ed ogni volta c’è un simbolo, in questa fiaba-mito, che corre in mio soccorso.
L’abisso in cui viene confinata la protagonista, la perdita della bellezza, il mostruoso, lo
sbrogliamento dello scheletro, il tamburo e il canto come rito magico e di cura. E infine, il
dono della lacrima.
Come avrai visto lo scorso sabato, quando sei venuta nel mio studio a Faenza, molti dei miei
ultimi soggetti provengono dal mondo delle fiabe e del folklore: da quello germanico dei
fratelli Grimm a quello dei miti e delle leggende partenopee.
I miei personaggi sono fate, sirene, mostri, o meglio, donne-mostro, e spesso piangono.
Piangono un po’ perché riflettono vissuti personali (sono una chiagnazzara – nel dialetto
campano vuol dire piagnucolona), ma anche perché l’atto del pianto, nel mondo adulto, è
qualcosa che spesso ci si nega. Non c’è tempo per piangere: si passa subito all’azione, al
problem solving, e per certi versi va benissimo così. Ma c’è qualcosa nelle lacrime che
appartiene al mondo della creazione, ed è qualcosa a cui non dovremmo mai rinunciare.

In tante fiabe o miti, le lacrime hanno un potere curativo e creativo, ma soprattutto
trasformativo. Le lacrime sono ingredienti di pozioni e filtri magici, hanno la capacità di
spezzare i sortilegi e di ribaltare il volere del fato. Da bambina, ciò che mi colpiva di più della figura del mostro era la sua bruttezza. Non tanto la sua cattiveria o la minaccia che rappresentava, quanto il suo essere fuori dai canoni, sgraziato, diverso. Ricordo che avevo sette, forse otto anni, quando mio padre mi regalò la videocassetta de L'incantesimo del lago. Alla fine del film scoppiai in un pianto disperato. Mio padre, preoccupato, mi chiese il motivo, e io gli risposi che piangevo perché non ero bella come la protagonista. Non avevo nulla di lei: né il vitino da vespa, né i capelli lunghi e biondi. Mio padre mi liquidò con una frase di conveniente dolcezza, ma dentro di me rimasi turbata.
Durante la preadolescenza, ho sofferto molto per il mio corpo, che non corrispondeva agli standard di bellezza imposti dal mondo intorno a me. Erano gli anni del primo decennio del 2000, e la moda dettava imperiosamente pantaloni a vita bassa giro-pube, taglia 38, autoabbronzante con tanto di chihuahua di Paris Hilton. In un mondo dominato da figure disneyane, io, che sono nata e cresciuta a Napoli, avevo però la fortuna di confrontarmi quotidianamente con un femminile ben diverso.
Un femminile che osservavo nella mia famiglia, spesso controverso, duro, verace.
Mia madre, come la nonna e le zie, sono sempre state donne di polso, donne delle grandi
decisioni, più simili alle arpie che alle angeliche sirene di Andersen.
(Ma, sicuramente, le arpie sono molto più interessanti).
Di Francesca Cerfeda


Ad ogni visita ad un museo archeologico mi hanno sempre attratto profondamente i raccogli
lacrime, queste piccole ampolle tascabili. Sono oggetti male interpretati nella loro funzione,
erroneamente connessi alla raccolta delle lacrime per una persona defunta seconda la letteratura o i vari scritti. Questa versione mi ha sempre molto affascinato. C’è questa frase che mi risuona nella testa da quando ero piccolina “se non piangi ti allaghi dentro, e tu sei una marea in piena”.
L’ultima volta che mi hanno spezzato il cuore ho pianto tutte le mattine per un anno. Non avevo un raccogli lacrime per cui usavo il telefono per scattarmi delle fotografie. L’immagine delle lacrime era per me un appunto: ricordati che ce la stai facendo. Quanto sarebbe stato di conforto avete il tuo “Porta lacrime” (ceramica, corallo, 2024, 12x10x6 cm) sul comodino.
Entrare nel tuo studio Francesca è stato come mettere piede in un mondo che pensavo fosse
perso per sempre, che nella frenesia del quotidiano si perde di vista e viene lasciato indietro
quando “si diventa grandi”. Sono le storie, quelle vere o immaginate, o le fantasie che se ci credi profondamente sono più reali del reale. Sono campanelle, creature a riposo o leporelli che dipanano narrazioni. Sono i tantissimi personaggi che abitano il tuo immaginario e prendono varie forme di un caleidoscopio bestiario.

Viola, la sirena, ad esempio, non sa come distinguere le sue lacrime salate dall’acqua del mare. Oppure Lettino - buonanotte demonietto ha trovato il suo modo di convivere con i suoi demoni, se li mette accanto sotto alle coperte. Senza il demonietto, non riesce più a dormire.
Fata poi, vede solo con le ali e vola con gli occhi. O ancora Cornelia, un’incantesimo le ha messo delle ali al posto delle braccia, è destinata a ballare librandosi e non può più tornare a terra.
Di Laura Rositani

