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  • Monica Picasso

Lavoro, un difficile equilibrio tra doveri e desiderio


Foto di Sara Lorusso

“I giovani non hanno più voglia di lavorare”, “ai miei tempi non si facevano tutte queste storie”, “non sanno cosa vuol dire lavorare 12 ore al giorno”. Queste e tante altre frasi fatte sono eco di un passato che ha caratterizzato le generazioni precedenti, soprattutto i cosiddetti boomers, ma che condizionano oggi le nuove generazioni. Non sempre, anzi, quasi mai in un modo positivo. Si utilizza così un sistema di riferimento vecchio, obsoleto, poco aderente alla modernità, per leggere delle dinamiche lavorative e sociali che hanno molto di differente. Ma, soprattutto, si utilizza un modello di riferimento che ha molto a che fare con il dovere, e poco con il desiderio.


Fino a poco tempo fa, il linguaggio nella delicata fase del giovane adulto (che va da 20 ai 35 anni circa) era ricco di riferimenti alla quantità: quanto lavori, quanto guadagni, quanti figli hai, quanto spendi. Il valore di una persona, i desideri, il futuro erano quindi tutti orientati ad avere a disposizione sempre maggiori risorse materiali e personali. Più risorse hai, più ti impegni in una determinata attività, tanto questo basterà a garantirti il successo. Che poi sarebbe anche da vedere quanti di loro hanno effettivamente raggiunto ciò che desideravano nella vita. Ma, soprattutto, se lo saranno mai chiesto? Ragionare in termini quantitativi è, infatti, estremamente riduttivo, non tiene conto dell’individualità di ognuno o di come ci fa sentire ciò che ci accade. Ci viene insomma chiesto di essere produttivi in questo mondo, dove produttivo è il termine chiave della modernità. Se non produci, non vali. Ma chi l’ha stabilito? Il nostro valore non è dato da “cosa” facciamo o “quanto” lo facciamo. Tutti noi abbiamo valore di base. Abbiamo poi tutta una serie di predisposizioni, caratteristiche, abilità potenziali, che si possono sviluppare non tanto per diventare i migliori o i più bravi in termini competitivi, ma la versione di noi che più ci garantisce equilibrio e stabilità. Che possa farci aspirare a una buona salute fisica e mentale. 


Oggi si viene quindi a costituire la necessità di un punto di svolta. Dovremmo passare dall’era del dovere e della fatica, a quella dei sogni e della qualità delle cose. Preferisco avere di meno, ma stare meglio, se proprio devo scegliere. Preferisco impegnarmi in ciò che mi piace, senza per forza lavorare 20 ore al giorno. Per carità, posso farlo, ma perché è una mia scelta e non un’imposizione. Preferisco sviluppare la mia predisposizione naturale, al fine di creare una narrazione di me equilibrata e che ben corrisponde alla realtà interna, e non a quello che mi chiedono di essere. Questo sarebbe ciò a cui si dovrebbe arrivare in epoca moderna: puntare sulla qualità (della vita, del lavoro, della salute) e non più sulla quantità. Perché è chiaro che altrimenti le cose non funzionano. Che l’unica cosa che poi aumenta di quantità sono l’ansia e la difficoltà di progettazione. Utilizzare infatti una cornice fatta di punti di riferimento antichi, appartenente a un momento storico e sociale diverso, non può che generare disagio. I più giovani, quindi, oltre a faticare come non mai nell’affermarsi come giovani adulti responsabili e con valide qualità, vengono scambiati come dei fannulloni, sempre insoddisfatti, sempre a chiedere e mai a dare. “Ma con tutte le opportunità che hanno di cosa si lamentano?”. Le cose stanno proprio in modo diverso. Viene richiesto di scegliere tra l’essere perfetti e performanti e l’essere felici. Il risultato di tutto questo? Un drastico aumento di disturbi mentali quali ansia e depressione, di senso del fallimento, di incertezza e incapacità di progettare un futuro.


Poi, anche al di fuori del lavoro, le cose sicuramente non aiutano. I prezzi salgono, il costo della vita subisce picchi vertiginosi, e io non posso uscire di casa con il mio stage da 500 euro al mese che, forse, mi porterà a un’assunzione. Ma solo se mi faccio il mazzo e vivo in azienda. Solo se rinuncio a ciò che mi fa stare bene anche al di fuori del lavoro. Insomma, non proprio una situazione allettante. In più, sembra che ormai le prestazioni richieste raggiungano livelli altissimi, quasi come se si dovesse entrare nel mondo del lavoro già formati al massimo. Quella che viene chiamata “società della performance” è infatti una società in cui non c’è spazio per l’individualità e per la creazione di una reale e sana narrazione di sè. Cosa significa questo? Significa che non esiste più spazio per il silenzio e per l’ascolto. Significa che vengono costantemente richieste idee e opinioni, che poi però non vengono rispettate. Significa che le aspettative che io sento provenire dal mio ambiente esterno nei miei confronti, sono vissute come troppo intense e alte, con il risultato di farmi sentire inadeguato o incapace di rispondere adeguatamente.


Foto di Sara Lorusso

La realtà dei fatti è che i giovani hanno una grande voglia di lavorare e di mettersi in gioco. Sono attivi nel risolvere (o almeno provare a pensare a come farlo) i problemi tramandati dalle generazioni precedenti. Ma sono tremendamente insicuri nel farlo. Pochi riescono a tirarsi fuori da queste insicurezze. Questo anche perchè, di positivo, c’è il tema delle possibilità. Queste ultime si sono infatti sicuramente moltiplicate, sono di più facile accesso rispetto a un tempo (pensiamo all’aumento del numero di persone che accedono agli studi universitari). Ma questa è anche un’arma a doppio taglio, perchè quando si hanno troppe possibilità, è quasi come non averne nessuna. E io non riesco a scegliere, se non so farmi le giuste domande.


In studio mi capita sempre più spesso di incontrare giovani adulti saturi del mondo del lavoro e del futuro. Arrivano tutti allo stremo delle forze, al massimo delle loro possibilità, uno stage dopo l’altro, un’azienda dopo l’altra. Per poi risvegliarsi come da un sogno e cominciare a domandarsi “Ma come diavolo ci sono finito qui? Non era dove volevo arrivare”. Ho in mente il caso di Marco, giovane consulente, che si sente estremamente sopraffatto da un ambiente di lavoro che richiede orari impossibili ma, soprattutto, che lo porta a una costante competizione con i colleghi. Perchè solo i più meritevoli procedono, solo chi si sacrifica per il lavoro e chi esegue i compiti nel modo più efficiente possibile. E ciò è fonte di estrema competizione, di ansia per il non riuscire a rispettare le scadenze e le aspettative. Un altro scenario è costituito da coloro i quali hanno ben in mente dove vogliono arrivare, ma che incontrano moltissimi ostacoli durante il percorso. Penso a Lucrezia, una giovane paziente di 25 anni appassionata di fotografia e, per questo, decisa a investire in questo campo. Non ha ancora perso le speranze, ma quanta fatica di fronte a un mondo che sembra fare di tutto per impedirglielo. Ha accettato infatti una serie di lavori non retribuiti, ma pagati “in esperienza”, ha cominciato a farsi un nome ma ad oggi c’è ancora molto lavoro da fare. C’è anche qualcuno a cui le cose vanno bene, come Marzia, una ragazza di 27 anni che, dopo anni di lavoro in una multinazionale, ha deciso di ridurre drasticamente il proprio orario per poter diventare anche una maestra di Yoga e portare avanti entrambe le cose. Oltre a riuscire finalmente ad investire sulle amicizie e le relazioni.


Questi esempi, e potrei riportarne moltissimi altri, sono evidenza della necessità che le cose cambino, soprattutto in termini di salute mentale. Non è un caso infatti che se ne cominci a parlare in questo momento, che si investa sempre di più in percorsi di supporto psicologico e psicoterapia. Perché la salute mentale è importante tanto quanto la saluta fisica. Anche qui, il problema è spesso economico. I servizi pubblici si sono saturati in tempi rapidissimi e l’accesso privato non è sempre possibile. Anche le aziende hanno iniziato a investire in questo senso, attraverso progetti di welfare e formazioni.


Ma come si combatte l’incertezza? Come ci si inserisce nel mondo del lavoro senza esserne schiacciati? 

Per prima cosa inserisco un verbo fondamentale: interrogarsi. Non bisogna infatti mai smettere di farsi delle domande. Che cosa desidero? Cosa mi piace? Cosa vorrei evitare? Sono tutte domande scontate, talmente scontate che si è smesso di cercare una risposta o, anzi, non si è più capaci nemmeno di formularle. Sono, invece, la base per la ricerca di una progettualità futura sempre in linea con chi siamo, con la nostra evoluzione e i nostri bisogni. 

In secondo luogo devo lavorare sulle mie skills personali, non tanto in termini di potenziamento, ma in termini di scoperta. Che cosa so fare? Cosa mi riesce meglio e cosa no? Ci sono delle cose che il lavoro potrebbe richiedermi che posso potenziare? Su quali provo insicurezza? Spesso infatti diamo per scontato di sapere (o non sapere) cosa siamo in grado di fare, senza però essercelo mai domandati davvero. Oppure ci abbattiamo di fronte agli errori che è normale commettere. O viviamo della descrizione che gli altri fanno di noi e con la quale ci siamo identificati. Insomma, pecchiamo un po’ in autoanalisi e valutazione oggettiva delle nostre competenze e risorse.


Infine, un punto fondamentale: non avere paura di fallire. Senza gli errori è davvero difficile trovare la chiave per affrontare ciò che ci riserva il futuro. Sicuramente sbaglieremo, è inevitabile, soprattutto all’inizio della carriera lavorativa. È una cosa nuova, che non abbiamo mai fatto e che dobbiamo imparare a gestire e affrontare. Ci saranno quindi delle cose che ci riusciranno più semplici e altre no. Accettare di poter sbagliare, di commettere degli errori, senza farci definire da questi ultimi, è alla base di un sano approccio al lavoro. Anche se poi questi errori ce li fanno notare, è il compito di chi ci fa da mentore. Avere però una stabilità interna di fronte ad essi è ciò che ci aiuta a non farci troppo destabilizzare da eventi esterni. Io non sono l’errore che commetto, devo ricordamelo sempre. E agli errori si può sempre porre rimedio. 


Importante: non smettere mai, mai, di darsi valore. Sempre e comunque. Noi non siamo quello che produciamo o gli errori che facciamo. Siamo sistemi complessi fatti di infinite parti, che a volte passano da una fase di disequilibrio per poter raggiungere un nuovo equilibrio stabile e funzionale. A volte, però, c’è anche bisogno di chiedere un aiuto, e non dobbiamo sentirci sbagliati per questo. Accettiamo di essere umani.

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