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Nel mondo dolce e brutale di Kristina Rozhkova

  • Fiorenza De Gregorio
  • 4 ore fa
  • Tempo di lettura: 8 min


Sbirciare per la prima volta nell’account Instagram @strapon_svinopas, nome utente della fotografa Kristina Rozhkova, è un’esperienza bizzarra: all’improvviso sei accecata da visioni di nudità e sudore, marcissimi close-up animaleschi, corde tese a stringere corpi candidi, muscoli bruciati da un flash impietoso e nauseante. Ero eccitata? Confusa? Intristita? Ho pensato che fossi finalmente riuscita ad allenare il mio algoritmo a mostrarmi robe che mi piacciono davvero. Ma cosa mi piace? Sicuramente tante cose tenui, il viola pastello, gli animali carini, i film norvegesi, le persone che si abbracciano teneramente, ingenuamente. Ma sono attratta anche dall’esplicito, dall’erotico, dal gore, dalla musica veloce, dal camp, dal cinema strano e violento. Una risposta univoca non esiste, o forse è la sintesi di questa pluralità di contrasti, e nei lavori di Rozhkova si ritrova proprio questa contraddizione: che sia tra impassibili curve femminili, o nella quotidianità rurale di posti lontani, aggressività e dolcezza si compenetrano costantemente. Sullo sfondo, la Russia come sede di affetti e tradizioni identitarie, ma anche causa di incomprensione, isolamento, amarezza. Classe 1996, nata a Perm (Russia, Urali Centrali), Rozhkova ha studiato filosofia e nel mentre ha iniziato a scattare, per poi spostarsi alla Fotografika Academy di San Pietroburgo. Il suo primo vero progetto, DACHA, era un compito per l’Accademia: “è capitato per caso: ero in vacanza, immersa nella natura, nel cottage di un’amica, mangiavamo latte e fragole; poi un campo pionieri abbandonato, le torte della nonna, il passato sovietico. Ho fotografato tutto attorno a me…”. Quelle e altre foto poi Rozhkova le ha trasformate in carte da gioco erotiche, il suo progetto di tesi RUSSIAN EROTIC COLLECTION (qui l’incantevole video di presentazione). Al 2023 risalgono due progetti importanti: BODYLAND, sul bodybuilding, che lei descrive come un “culto del sacrificio”, e poi la sua serie più di successo finora, THE BLISS OF GIRLHOOD. Ode alla preadolescenza femminile, Rozhkova ha ritratto in modo esplicitamente nostalgico l’ambiguità del passaggio da innocenza a età adulta, focalizzandosi sui rituali di bambine incontrate per strada: tatuaggi temporanei, sticker, glitter… Solo dopo ha notato che “le immagini finali parlano di me, SONO me stessa. Le ragazze hanno un’essenza dialettica – tenera e vulnerabile, e al contempo il contrario di ciò, aggressiva, violenta, distruttiva… Spesso le donne mi dicono che si rivedono nelle mie foto, mi è successo che arrivassero da me piangendo perché hanno visto la loro adolescenza in esse, in modo così sensibile, così sottile”. Nel suo portfolio, gioco e nostalgia pervadono tutto. Io, da quest’estetica, ho sviluppato una vera e propria dipendenza e, dopo mesi passati a salvare i suoi lavori tra i preferiti, finalmente ho potuto farle qualche domanda.





Come è iniziato il tuo percorso nella fotografia? Quanto è stato importante frequentare l’Accademia? Ho iniziato per caso, un amico mi ha lasciato usare la sua macchina fotografica. Scattavo persone nude in modo frenetico, tutti i giorni, senza pensare al perché: alla fine gliel’ho comprata. Prima di quel momento, non avevo mai provato nulla nel campo dell’arte, anzi pensavo che la creatività proprio non fosse la mia roba, che il mio campo fosse più teorico. La fotografia mi ha dimostrato che sono un’artista, e che mi piace parlare a chi osserva attraverso il linguaggio delle immagini, e creare il mio mondo. In Accademia ho capito come lavorare, quando ero arrivata avevo giusto due mesi di esperienza. Mi hanno insegnato ad esprimere me stessa attraverso questa arte, ed ho conosciuto nuovi amici, persone interessanti con cui sono ancora in contatto. È stato fondamentale, ho paura a pensare cosa ne sarebbe stato di me senza studiare lì in quel momento della mia vita! Sono davvero grata. Parlami della tua routine fotografica. Scatto solo in digitale. Mi piace di più il colore ma dipende dall’idea. Il picco della mia attività fotografica è di sera, perché mi piace dormire tanto, andare a letto tardi e svegliarmi tardi. Mi piace il flash perché evidenzia ed enfatizza la realtà, la ribalta al contrario, tira fuori ciò che è nascosto in essa, rende l’immagine piatta, quasi senza ombre. Non post-produco le mie foto, non ho mai usato Photoshop. Non so usare le macchine fotografiche, scatto tutto in modalità automatica. Non so come settare i tempi, il diaframma etc... non ci capisco niente. Forse la mia stupidità e pigrizia a volte mi ostacolano, ma tutte queste cose tecniche non sono la mia priorità nella fotografia, e mi mettono in difficoltà. Hai qualche ossessione, quando scatti? Sì, per i dettagli, il che ha a che fare con il mio desiderio di feticizzare tutto. Forse è una caratteristica della mia visione, il fatto di vedere raramente l’insieme: mi piace scomporre tutto in parti, e poi scegliere solo le migliori. Quando trovo un angolo interessante posso scattarlo anche 40 volte, scatto finché non sono stanca. Alcune foto diventano capolavori! O magari no. È quello che mi piace dell’arte in generale: che ne fai tanta, ma alla fine non sai quale sarà il risultato finale, anche se lo vedi il più chiaramente possibile. Mi piace lavorare molto e sempre, nel senso che posso anche non scattare per mesi, ma nel frattempo riciclo vecchi materiali, lavoro su libri fotografici, allestisco mostre… poi studio tanta teoria, vado in biblioteca. E poi, improvvisamente, ricomincio a scattare ogni giorno. Per un nuovo progetto scatterò lotte clandestine, orfanotrofi per topi e nel museo di medicina legale, ma prima di questo non ho scattato per un lunghissimo tempo, mi capita spesso.




Che rapporto hai con la tua città natale, e con il tuo paese d’origine? Vorresti vivere da qualche parte in particolare, per avere ispirazione? Perm mi ispira molto, scatto spesso lì. Recentemente, sono stata nei villaggi semi- abbandonati della mia regione, a visitare mia nonna: c’era solo neve e ghiaccio, praticamente nessun giovane, solo gli anziani a passare gli ultimi anni di vita. Mi è piaciuto molto, ho sciato, visitato un vecchio archivio di foto di famiglia e scoperto nuove cose su mio padre, con cui non ho quasi mai parlato. Vorrei fare un progetto fotografico sul villaggio di mia nonna, dove ci sono le miniere abbandonate; i miei antenati erano minatori, anche le donne! Quel posto sta morendo e le case si possono prendere gratis. Nessuno vuole viverci, ed è per questo che voglio raccontare proprio quel posto. Al momento vivo a San Pietroburgo, ma vorrei andare via, e vivere in tanti posti diversi, viaggiare un po’. Vorrei visitare l’Argentina, il Portogallo, il Messico, la Spagna, l’Islanda, il Giappone. Non mi piace stare ferma, sono irrequieta, e questo si vede anche nella mia arte. Vorrei vivere periodi nelle città, ma adoro i villaggi e la vita rurale, la natura mi ispira immensamente. Standoci dentro puoi trovare tante situazioni interessanti, ma puoi anche metterci una persona in mezzo e osservare il processo d’interazione tra l’uomo ed essa. C’è un intento ricorrente dietro la tua arte? Studiare filosofia ha modificato il tuo modo di pensare, alla vita e alla fotografia? La filosofia mi ha aiutato molto nel mio lavoro e sono felice di averla studiata. Lavoro principalmente con la fotografia concettuale, dunque senza i significati e le idee cucite alla base dell’immagine in sé il mio lavoro è nullo. Il mio background filosofico e le mie esperienze di vita sono il fulcro di ogni foto che scatto, anche se inconsciamente: non esisto al di fuori di esse. Il mio modo di pensare, la mia infanzia e i miei traumi sono ciò che mi aiuta a creare; ad esempio, il bullismo che ho subito a scuola ancora oggi mi aiuta ad inserire una sottigliezza nella mia arte. Non vedo le mie foto come, semplicemente, belle o divertenti per intrattenere il pubblico, non voglio farlo. Con le mie immagini esprimo il mio atteggiamento verso il mondo, verso me stessa e la società. La fotografia è un modo di esprimermi chiaramente e subito, in modo più accessibile e veloce rispetto ad altri medium. Non sono una fan della fotografia, ma finora l’ho trovata un mezzo molto comodo. Quindi è vero che non prendi ispirazione da altri fotografi! Allora che influenze hai? Ho letto che il cinema rientra tra queste. Sono ispirata dal processo stesso, dalla sua crescita e saturazione, mi piacciono i dettagli, osservare il mondo e trovare cose interessanti in esso. Ad esempio, il modo in cui brulicano i vermi mi ricorda le persone in metropolitana, e la bocca aperta di un cane corrisponde a tutto il mio mondo interiore, violento e vulnerabile contemporaneamente. Da anni sono appassionata di cinema, in università scrivevo testi sulla sua filosofia, e ho condotto corsi in cui guardavamo roba art house e leggevamo saggi a riguardo. Non so perché la fotografia, e la sua teoria, mi coinvolgano così poco che non ho nemmeno voglia di studiarle. Con la fotografia lavoro solo nel pratico. Al contrario, adoro studiare i film, ma poi non li giro! È curioso. Mi piacciono i film dagli anni ‘50 ai ‘70 di varie nazionalità… Amo tutto di Pasolini, Bergman, Bresson, Kaurismäki, Dreyer, Kurosawa, Herzog.





Che emozioni provi mentre scatti? Mi piace sentirmi coinvolta, giocosa, incantata. È bello cadere in una trance, non pensare a nulla se non al processo artistico. Non mi capita di sentire tristezza o ansia mentre lavoro. Forse l’ansia è essa stessa cucita nella mia coscienza: io attraverso periodicamente momenti molto difficili, poiché la giovinezza non è stata semplice. Non è facile essere un’artista russa, soprattutto se fai cose anche solo lontanamente provocatorie. Ti definisci femminista? Credo di essere più vicina al femdom che al femminismo, sono vicina all’estetica della dominazione femminile. Adoro e ammiro le donne, per me la loro superiorità è ovvia. Ho scoperto il femminismo anni fa, per me è un qualcosa di quotidiano. Prima scrivevo tanto a riguardo, ora mi ci focalizzo di meno: sono stanca di parlarne, perché ci sono ancora troppi rappresentanti del patriarcato nella mia nazione – e io li odio. Credi che essere una donna sia, o sia mai stato, un ostacolo nell’ottenere riconoscimento in questo campo? Quello che più ostacola il mio percorso non è essere donna, ma è essere una donna russa. Mi trovo in una situazione estremamente scomoda, sia nel mio Paese, dove il mio lavoro non viene riconosciuto perché troppo provocatorio, sia all’estero, perché ho un passaporto russo.




Qual è la connessione tra la tua fotografia, la sessualità e il bondage, dato che sono spesso presenti? Quando scatto un nudo, o lo shibari, o in generale qualcosa di sessualizzato, non c’è quasi mai né imbarazzo né pudore. Ho un talento in questo, non divento mai timida davanti alla nudità di altri, e nemmeno rispetto al mio corpo spoglio (tant’è che io stessa poso spesso nuda). Quando ti senti liberata sotto questo aspetto, la modella con cui lavori lo avverte. Poi, specialmente le persone che mi chiedono di scattarle sanno cosa le aspetta, conoscono il mio stile. Adoro quando le persone vogliono svestirsi davanti a me. Mi piace il fetish: ne amo tanti, mi piace feticizzare parti specifiche di questo mondo, osservarle da vicino, esporle allo spettatore, sbattergli in faccia quello che voglio fargli vedere. Lo shibari mi ispira come forma di potere che le persone scelgono per loro stesse. Da sempre sono affascinata dai temi del potere in relazione al BDSM come scelta consenziente di un uomo, nello specifico il perché un uomo voglia essere schiavo, farsi rinchiudere in una gabbia, farsi usare come sgabello… Lo shibari è solo un altro modo, particolarmente piacevole a livello estetico, di intendere il fetish: aggiunge plasticità al corpo, come sulle tele dei grandi pittori. Non è che la nudità mi interessi in sé, è che non mi piacciono i vestiti, specialmente quelli odierni. Odio la cultura moderna, l’attualità non mi ispira, è così brutta… a volte è più facile scattare una persona totalmente nuda che doverla guardare vestita con i vestiti di massa di oggi. Poi, adoro alcune texture nel corpo umano; per me la persona che scatto è come un curioso oggetto, una statua di cera, i ritratti psicologici non mi interessano.

Stai lavorando a nuovi progetti? Sì, ad uno multidisciplinare sulle gabbie. Ho già fatto delle bozze: dipinti fatti di strass, perline, intelligenza artificiale, resina epossidica. Ma anche foto, credo sarà un libro fotografico. Sto facendo ancora ricerca, su zoologia, animali e insetti. È un progetto molto importante per me, parla di come un animale si senta in gabbia, per poi spaziare a vari tipi di celle, anche metaforiche. Il cardine è: la gabbia è ovunque.

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