Nel vasto panorama della salute, c'è un racconto spesso trascurato eppure intriso di
coraggio, resilienza e una forza silenziosa, di chi però in silenzio non ci vuole più stare.
Parlo di tutte quelle donne che, nonostante il peso del dolore cronico, affrontano una
battaglia personale per sensibilizzare, informare e combattere l'ingiustizia sistemica nel
trattamento della salute femminile. In un contesto dove la disinformazione è nemica, la
condivisione delle esperienze diventa cruciale. Per questo, ho deciso di intraprendere un
dialogo con alcune sorelle di dolore. Quelle che seguono non sono storie di eroismo
spettacolare, ma di coraggio quotidiano mescolato a una giusta dose di rabbia, frutto di
anni di invalidazione e violenza di genere. Storie che meritano di essere udite e ascoltate.
Era (in arte Era Vento)
Artista e fotografa di nudo femminile, convivo con DSA per cui sarò breve e coincisa nelle
mie risposte.
Gloria (per lə amicə Koki)
Paziente attivista e femminista intersezionale.
Quanto tempo ci è voluto prima di ottenere una diagnosi, e come hai vissuto questo
processo?
E: il percorso verso la diagnosi di endometriosi, adenomiosi e fibromialgia è durato ben 9
anni, mentre per la vulvodinia ce ne sono voluti 5. Anni caratterizzati da un forte dolore,
incompreso, spesso minimizzato o ignorato. Ogni visita specialistica sembrava portare
sempre alle stesse frustranti risposte: "è solo stress", "sei esagerata", "il dolore è
normale", e così il mio stare male veniva costatante invalidato. Più volte sono arrivata a
dubitare di me stessa e delle mie sensazioni. Per questo per me la diagnosi è stata come
una liberazione, una vittoria contro tutti coloro che mi credevano pazza.
G: il percorso per ottenere una diagnosi è stato graduale e turbolento per via della
continua minimizzazione dei sintomi e dei molti errori medici che hanno portato il mio
corpo ad un processo di cronicizzazione sempre più intenso. Sin dal menarca ho
affrontato un’adolescenza travagliata, ogni mestruazione voleva dire assentarmi da scuola
e dipendere da antidolorifici per giorni. A 17 anni ho subito la mia prima operazione in
laparoscopia per una cisti ovarica di 8 cm. Qui mi è stata prescritta la terapia progestinica
per sospetta adenomiosi, ma la mia giovane età e l’incapacità medica non mi hanno
permesso di dare voce a quello si è poi rivelato non essere solo un sospetto diagnostico.
Dopo 4 anni di terapia progestinica con pillola contraccettiva ho avuto un’embolia
polmonare massima, in parole semplici, un infarto polmonare che mi ha bloccata per un
mese in terapia intensiva. Si poteva evitare? Si, sarebbe bastato prendere in
considerazione i miei dolori e gli effetti collaterali segnalati ed effettuare un banale esame
del sangue. Questo episodio ha impossibilitato il silenziamento di una patologia che, come
unica terapia, vede la pillola anticoncezionale – che non ho e non avrò mai possibilità di
assumere. Così, dopo 6 e 7 anni dal menarca sono arrivate le diagnosi di adenomiosi ed
endometriosi, mentre quella di fibromialgia e vulvodinia solo 2023.
Nel contesto della malattia hai mai sperimentato episodi di gaslighting medico,
violenza ginecologica e discriminazione di genere?
E: assolutamente sì! Il mio dolore è stato ignorato sia dai professionisti medici che dalle
persone che mi circondavano. La ginecologa mi confessò di non sapere come trattare il
mio caso e vari specialisti suggerirono cure antidepressive perchè, a detta loro, i miei
malesseri erano tutti riconducibili allo stress. Le malattie croniche invisibili mi hanno
insegnato a non giudicare il dolore degli altri perchè non puoi capire appieno ciò che non
vivi sulla tua pelle.
G: se contiamo che nella mia esperienza ospedaliera sono stata invalidata almeno una
volta per ogni ricovero o entrata in pronto soccorso e per ogni visita in ricerca diagnostica
che mi ha portata ad anni di ritardo per il riconoscimento delle mie patologie, ad anni di
maggiore agonia rispetto ad un dolore intollerabile e ad una sottovalutazione dei miei
sintomi e degli effetti collaterali che lamentavo, allora si, abbiamo un problema di genere
negli ospedali che reputo emergenziale.
Come affronti la convivenza con il dolore cronico, e quali strategie adotti per
migliorare la qualità della tua vita?
E: con coraggio, direi. A volte mi stupisco di quanto dolore il mio corpo possa sopportare.
L'acqua calda è diventata la mia migliore amica; borse d'acqua calda e bagni bollenti mi
aiutano ad alleviare momentaneamente il dolore.
G: vivere con il dolore cronico non significa potersi abituare ma provare a gestirlo, spesso
con scarsi risultati. Con gli anni mi sono resa conto che, per sopravvivenza, la mia scala di
sopportazione del dolore si è alzata sempre di più. In passato ho dovuto affrontare più
volte un livello di dolore al di là dalla mia possibilità di gestione. Mi sono ritrovata a tirare
pugni al muro, vomitare, svenire, avere sbalzi di pressione e tachicardia, non riuscire più a
muovere le gambe o a mangiare, avere la febbre e ustionarmi la pancia pur di provare
anche solo un breve momento di sollievo. Nel tempo però ho imparato ad ascoltarmi di più
e quindi ad avere migliori risultati nella gestione. Inoltre, sono venuta a conoscenza di
strumenti salvifici per patologie croniche come queste, come gli elettrostimolatori e i
dispositivi riscaldanti per addome e zona pelvica. Oltre alle terapie farmacologiche, ho
iniziato ad assumere terapie del dolore che spesso portano ad annebbiamento,
stanchezza e confusione mentale, ma che mi aiutano ad affrontare il quotidiano.
Quali ripercussioni può avere il dolore cronico sulla salute mentale?
E: il dolore cronico mi ha rubato la spensieratezza. La consapevolezza che dovrò fare i
conti sempre con visite mediche, terapie e trattamenti molto costosi mi genera un grande
senso di ansia per il futuro. Per via di queste preoccupazioni (e non solo) ho iniziato ad
andare dalla psicologa, tassello essenziale che si aggiunge alle spese per la mia salute
fisica e mentale. Insomma, è un circolo vizioso!
G: gli anni di ritardo diagnostico, caratterizzati da violenze psicologiche e molto spesso
anche fisiche, portano necessariamente la nostra mente e il nostro corpo in una posizione
marginale e fragile. La mia diagnosi di depressione è arrivata nel 2022, dopo anni di
disturbo post traumatico caratterizzato da ansia e paranoia.
Vivere con un dolore cronico quotidiano per anni invalidato e invisibilizzato è molto
complesso in una società che richiede produttività e performatività e in cui ci insegnano
che stare male è per i “deboli”. Quando ti senti dire che non hai nulla, che è tutto nella tua
testa, inizi a crederci e più passa il tempo e più quell’idea si concretizza e diventa parte di
te. E' per questo che parliamo di abilismo interiorizzato, perchè diventa parte di noi, non
esiste pi un equilibrio tra il provare dolore e credere a quello che sentiamo.
Che rapporto hai con il tuo corpo?
E: in quanto fotografa di nudo artistico femminile ho sempre fotografato il mio corpo, ma
quando mi sono state diagnosticate queste malattie, per un po' ho smesso di farlo. Non
riconoscevo più il mio corpo, soprattutto a causa dell'endometriosi che mi porta a soffrire
di endo-belly.
G: il mio corpo, come dice Carolina Capria, è un campo di battaglia, composta da
pressioni e aspettative sociali, fatto di lotta, ma non verso l’involucro che abito, verso il suo
riconoscimento sociale. Non posso ammettere di non odiarlo, l’impegno di cui necessita, la
sovra gestione che mi richiede è come un secondo lavoro non retribuito. Lo slogan
“accetta il tuo corpo e amati” . qualcosa di fuorviante dal mio punto di vista, è alienante
dover pensare di amare un corpo malato ed è un’aspettativa sociale che ci confina a
sentimenti spesso irreali. Accettare di essere malata quando per anni hanno provato a
convincerti di non esserlo è complesso, ma non utopico. A chi è in dubbio per questa mia
risposta dico: “mi guardo e non mi guardo, lo faccio e non mi sforzo di amarmi, mi osservo
comprendendo i privilegi che l’involucro che abito vive, ma non mi obbligo a provare
sentimenti piacevoli quando lo osservo, andrebbe contro un percorso di convivenza col
mio corpo.”
Hai consigli da dare, come gruppi di ascolto o risorse online, per chi è alla ricerca di
supporto e comprensione?
E: sicuramente il consiglio più grande che posso dare è quello di parlane, anche se a volte
sembra che le persone non ti capiscano. La condivisione è preziosa. Io, per esempio,
sono riuscita ad arrivare ad una diagnosi proprio grazie al racconto di un’altra donna.
G: durante i primi anni di autodiagnosi, ho trovato, sotto consiglio di mia madre, un gruppo
su Facebook di donne* che soffrivano di endometriosi e adenomiosi che mi ha permesso
di sentirmi per la prima volta piena di compagne* di dolore. Questo, per quanto possa
sembrare banale, è un aiuto immenso per persone che vivono una marginalità sociale e
fisica e che affrontano molto spesso la malattia in solitudine. Da 3 anni è nata un’associazione che si occupa di svolgere un lavoro politico per il
riconoscimento di queste malattie croniche. Si tratta del Comitato Vulvodinia e
Neuropatia del Pudendo, che ha messo in rete: persone malate, le associazioni già
operanti sul territorio italiano, come AINPU (associazione italiana neuropatia del pudendo)
e AIV (associazione italiana vulvodinia onlus), e un comitato scientifico formato da
professionistə che hanno fatto propria questa battaglia in nome del diritto alla salute
universale. Sul sito web del Comitato si può consultare la lista di professionistə consigliatə
sul territorio nazionale, approfondimenti sul dolore pelvico cronico, guide dedicate alle
persone malate e a chi si trova al loro fianco, informazioni su gruppi di supporto,
sull’esenzione ticket per chi assume terapia del dolore e un dossier scientifico a
disposizione del personale sanitario. Grazie al Comitato si è data prosecuzione al primo
gruppo di mutuo aiuto nato in Italia con il nome di GAV (gruppo aiuto vulvodinia), oggi
rinominato GASP (Gruppo Ascolto Salute Pelvi) perchè esteso a più patologie. Gli
appuntamenti sono online e sono a numero chiuso. Dall’anno scorso stanno nascendo
anche gruppi di mutuo-aiuto regionali. Vi è inoltre lo sportello legale per il lavoro, unica
realtà in Italia che si occupa di una consulenza legale per le difficoltà lavorative o
universitarie.
**ci tengo a sottolineare che il Comitato Vulvodinia e Neuropatia del Pudendo non si
occupa solo delle malattie che porta nel nome, ma anche del riconoscimento di patologie
come fibromialgia, endometriosi e adenomiosi, migliorando la presenza dell’endometriosi
all’interno dei LEA perchè ad oggi il riconoscimento ottenuto è insufficiente a garantire un
reale supporto alle persone che ne sono affette.
Seppur nella sua difficoltà, pensi che la malattia ti abbia insegnato qualcosa?
E: in un certo qual modo, sì. So di essere un individuo con un mondo interiore e una
sensibilità unica. A livello artistico, invece, una volta superato il primo momento di
sconforto, ho deciso di realizzare un progetto fotografico che per la prima volta non parlerò
solamente di me, ma di tutte quelle guerriere là fuori che combattono contro le malattie
croniche. E' un progetto per la collettività che mi rende molto fiera.
La foto che ho scelto per questo articolo sarà proprio la prima di questo progetto!
G: tendiamo spesso a fare i conti con noi stesse* cercando una risposta come conseguenza di un quesito che si ripete: “ci sarà anche qualcosa di buono in tutto questo?”. Ma dopo anni di ricerca, mi sono resa conto che la risposta non esisteva. La malattia mi ha fatto rendere conto che venivo vista come forte e coraggiosa, perché tutti lo ripetono continuamente ed io avrei solo voglia di urlare “la forza arriva per sopravvivenza”. Quindi la mia riposta a questa domanda, pur rispettando ogni vissuto soggettivo, è che il dolore mi ha insegnato che la mia rabbia è legittima, che il mio corpo è politico e che posso urlare a voce alta i diritti che non ho, a costo di passare per isterica. Me lo hanno ripetuto per una vita, quindi ora lo rivendico. Eccomi, sono isterica, malata e piena di rabbia e ne vado estremamente fiera.
NB. Nell’articolo sono riportate esperienze personali. Il trattamento di queste patologie non è
standard e prevede un consulto approfondito da parte di personale medico qualificato.
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