
Il corpo, non si esprime necessariamente a parole eppure comunica costantemente, che tu sia in ascolto o meno. L’80% del benessere psicofisico dipende da lui, e la mente — a cui sembriamo dare tutto il merito — si occupa solo di un misero 20%. Non c’è da stupirsi se poi la maggior parte dei comuni mortali soffre di ansia e altre somatizzazioni date da quello che mi piace chiamare “la mancanza di corpo”. La mia unica possibilità di sentire la vita, annusarla, toccarla, piangerla tutta e ricominciare daccapo, dipende da questo involucro mortale. Ci accomuna tutti, eppure l’esperienza corporea rimane personalissima. Come si prendono cura dei loro corpi, le persone? Quali abitudini o rituali le riconnettono a sè stessi? Che aspetto hanno le loro case? Che rapporto hanno con la vulnerabilità? Quale tacita consapevolezza nascondono? Cosa sanno che io non so? Perchè non lo condividono con gli altri? Queste domande mi hanno spinta ad indagare le segrete genialità dei corpi in Body Conversations, una rubrica dove ci infiliamo in punta dei piedi nei meandri delle vulnerabilità delle persone. La prima è Lara Damaso, un’artista basata tra Milano e Zurigo, il cui lavoro si focalizza sul dialogo tra gli individui e lo spazio che occupano. La sua pratica performativa esplora l’interconnessione tra il tangibile e l’irrazionale, attraverso la presenza nel corpo, e l’utilizzo della voce. Il suo lavoro è stato presentato da molte istituzioni del mondo dell’arte, per citarne alcune: il Centre Pompidou a Parigi, la Triennale di Milano, ma anche dei festival come il Terraforma a Milano, il Movement Festival ad Hong Kong e molti altri.
Ciao Lara, sono una grande fan del tuo lavoro. Ciò che mi affascina di più è il concetto di vulnerabilità che trasmetti sul piano fisico e visivo attraverso l'uso del tuo corpo e della voce. Quando hai iniziato a scoprire e approfondire la relazione con il tuo corpo? Come la descriveresti?
Ciao Marika! Grazie.
Ho sempre avuto una relazione molto intima con il mio corpo fin da quando ero bambina.
Non è mai stato qualcosa che ho dovuto cercare, piuttosto la prova di qualcosa che dovevo seguire. Fin dalla nascita, si è manifestato in vari modi, per la prima volta tramite la mia pelle. Sono nata con un grave eczema, quindi il mio corpo — la mia pelle — ha sempre ricevuto molta attenzione dai miei genitori. La notte mi grattavo fino a sanguinare, e loro facevano il possibile per alleviare il mio dolore e guarirmi. La mia famiglia mi ha anche sempre raccontato che, dapprima che ne avessi memoria, passavo ore a guardare il mio corpo, ad esplorarlo e sognare ad occhi aperti. Mi affascinava il mio riflesso allo specchio e ci giocavo per ore. Ricordo che ad un certo punto mia madre iniziò a coprire lo specchio con un telo perché mi ci perdevo spesso — facendo smorfie, ballando o semplicemente osservandomi. All’età di 3 o 4 anni mia madre mi iscrisse ad una lezione di danza classica, assieme a mia sorella maggiore. Mia sorella smise un anno dopo, così smisi anche io.
Circa due anni dopo, riguardammo i video di me e mia sorella ballare e improvvisamente capii: volevo diventare una ballerina professionista. Chiesi a mia madre di iscrivermi di nuovo e, da quel momento in poi, ballare divenne tutto ciò di cui mi importava. Seguii sempre più e più classi finché non iniziai ad allenarmi sei giorni su sette, dividendomi tra scuola e lezioni di danza.
Con l’inizio dell’adolescenza, la relazione col mio corpo diventò profondamente conflittuale. Mentre cambiava, diventando più formoso e curvilineo, mi resi conto che il mio corpo da adulta non rientrava nei canoni di quello di una ballerina. Il costante confronto con lo specchio non aiutava. Odiavo le mie curve, soprattutto il mio sedere. Sognavo di avere un corpo magro, gambe lunghe, muscoli e vene visibili sotto una pelle tonica. Gli standard fisici e soprattutto visivi della danza, mi disconnettevano profondamente dal mio corpo in quel periodo, indipendentemente da quanto tempo passassi ad allenarlo. Cercavo costantemente di andare contro la sua natura, di combatterlo. Questa lotta interiore si manifestò in ipertensione muscolare e forti dolori al ginocchio che, assieme ad altre ragioni, mi portarono a lasciare danza all’età di sedici anni. Questo mi portò ad una profonda crisi d’identità, poiché avevo abbandonato il mio sogno e l'idea di chi ero — di chi volevo diventare.
Non ero più una ballerina, ero solo Lara, e dovevo capire chi fossi o potessi essere.
Fu un momento di grande esplorazione: skateboarding, ballare in discoteca, esplorare la mia sessualità, fare festa e scoprire l’arte. Quest’ultima fu una scoperta cruciale perché l’arte divenne uno spazio per riflettere sulla relazione col mio corpo a livello emotivo, concettuale, estetico, teorico e fisico. Mi permise di vederlo come materia viva e che respira — come un canale ed un mezzo — non come un limite. Come sappiamo, quando impariamo qualcosa di nuovo, ci vuole del tempo prima di assimilarlo e farlo diventare parte di noi. Questo fu quindi l’inizio di un lungo, probabilmente infinito processo di abitare il mio corpo. Il percorso non è lineare, il dolore è la sfida principale —fisico o psicosomatico.
Sono fortunata (o forse no) perché per me affrontare il dolore è sempre stata una necessità, un dovere, al pari delle altre emozioni. Ho capito che la maggior parte del dolore che sento viene dal fatto che il mio corpo è molto reattivo alle mie emozioni e prova sempre a proteggermi. Per questo amo il mio corpo —per tutto il sapere che contiene, tutto quello che sa fare, il calore che emana, la sua capacità di cambiare — nel suo profondo prima che nella sua forma.

Come ti influenza lo spettatore e qual è la tua relazione con l’essere vista?
Cosa senti di ricevere mentre ti esponi attraverso la tua arte e il tuo corpo fisico?
Mi sento sostenuta dal pubblico. Mi sento in uno stato molto istintivo e presente — una sorta di nudità, perché essendo vista non posso nascondermi, quindi mi lascio guardare attraverso. Allo stesso tempo, mi sento come se ricevessi la loro presenza, come se mi espandessi. Quasi come se la presenza di tante persone si scontrasse con la mia, moltiplicandosi. Non posso negare che essere al centro dell’attenzione è sempre stato qualcosa che amo, una sorta di gioco. Amo la consapevolezza che mi da e come quel momento di coscienza mi spinga oltre ciò di cui so di essere capace. Mi sento come se mi scoprissi ogni volta. Credo che dando me stessa, quello che ricevo in cambio sia la fiducia.
La tua arte è un atto di incarnazione, una manifestazione di sensazioni corporee e terrene. Come influisce questo con il tuo rapporto con i sensi, e in particolare con il tatto?
Direi che la mia arte è un atto di dissoluzione del corpo attraverso la totale presenza dentro di esso. È un dialogo tra il materiale e l'immateriale. Il mio corpo è il mezzo che utilizzo, ma non si tratta del corpo in sé, bensì di ciò che trasmette. E’ il movimento invisibile, il potenziale trasformativo del fare spazio dentro al corpo perché venga attraversato.
Il tatto per me è una necessità. Sono molto tattile ed estremamente reattiva al contatto fisico. E’ anche un gesto d’amore, un modo per calmare, per permettere al corpo di lasciarsi andare e di aprirsi. L’intenzione che c’è dietro al tocco, lo rende cruciale. La nostra pelle è un limite fisico e poroso, ma è anche il nostro specchio. Ci separa e ci connette, ci protegge e riflette la nostra condizione interna. Essere toccati richiede fiducia; è un accesso al nostro io interiore ed emotivo. Anche solo un leggero tocco, se non voluto, può farti male e segnarti per sempre. Quindi, nonostante il fatto che di solito senta un grande bisogno di toccare e di essere toccata, sono diventata molto attenta. Il contatto fisico può essere anche molto egoistico. Non è sempre diretto a chi lo riceve, può anche essere un modo per prendere dall’altra persona. Il contatto che ci guarisce veramente è raramente fisico; è quello della generosità, della bellezza, dell’amore. Così come dobbiamo imparare a comunicare e capirci oltre le barriere razionali del linguaggio, dobbiamo imparare a toccarci oltre la materialità dei nostri corpi. E’ così che impariamo ad ascoltare davvero e a stare insieme.


Riprendendo il concetto di fisicità del corpo, ho notato che utilizzi anche la tua voce nelle performance. Puoi descriverci cosa significa per te, come donna, includere la voce nella tua pratica?
La voce è centrale nel mio lavoro, poiché rappresenta una fisicità che è immateriale.
La mia pratica performativa ruota attorno alla molteplicità di voci che abbiamo dentro di noi, al potenziale espressivo, terapeutico e trasformativo della voce quando viene attivata la sua capacità vibrazionale, senza l'uso del linguaggio. Suono puro, dallo spazio interiore dei nostri corpi allo spazio esterno che i nostri corpi abitano. Poiché l’uso della mia voce è direttamente connesso al movimento del mio corpo e sotto il suo controllo, diventa ciò che definisco “caos canalizzato”. La voce è il respiro che diventa suono, mentre passa attraverso e fuori dai nostri corpi, all'interno dei quali si possono trovare molte voci. La voce, quando non è plasmata in parole, quando non è censurata e contenuta, è una pura espressione dell'irrazionale. Con il mio corpo, la plasmo e la dirigo. Per essere trasformate, le emozioni devono essere direzionate. Per le donne e per le persone marginalizzate — le cui voci sono state zittite o limitate per paura che la loro conoscenza dell’irrazionale spaventasse coloro che temono l’ignoto — conoscere le nostre voci e permettere loro di uscire dallo spazio dei nostri corpi ed entrare nello spazio comune, è una necessità: sia perché tutto ciò che è represso si esprime in un'altra forma — spesso contro noi stessi — sia perché la gerarchia tra razionale e irrazionale, materiale e immateriale, è uno strumento del patriarcato per il controllo, e la fonte della nostra profonda disconnessione, come società e come esseri umani. Credo fortemente nel caos, nella perdita di controllo e nel potenziale delle nostre voci per scuotere le vecchie strutture stabilite, a volte invisibili.

Ciò che emerge dalle tue performance è una forte connessione con l'aspetto psicologico e relazionale dell'umanità, evidenziando un focus sull'esperienza inconscia della vita. Come hai realizzato di aver bisogno di esplorare l'inconscio attraverso il movimento?
Non so se ci sia stato un vero e proprio momento di realizzazione o piuttosto un'evidenza nel mio processo personale, una comprensione del perché faccio ciò che faccio.
Di certo, i miei infiniti tentativi di curare il mio eczema mi hanno portato a cercare oltre la scienza, che lo descrive come una malattia autoimmune che non può essere curata, ma solo temporaneamente controllata. È sempre stato evidente per me che questo mondo è fatto di molto più di quanto possiamo spiegare, e sono molto sensibile all’invisibile.
Gran parte di ciò che faccio nasce dal confrontarmi con ciò che sono. Essendo alta, fisicamente molto presente, con una voce rauca e profonda, mentre allo stesso tempo estremamente sensibile, emotiva e delicata, so che tutto ha, almeno, una natura duale. Inoltre, sento che qualsiasi processo personale di affrontare il dolore non è intimo ma collettivo, e che la vulnerabilità condivisa ci renderebbe più forti. Non ho mai compreso l'idea di tenere la propria lotta per sé. Quindi, in un certo senso, ciò che do e condivido attraverso il mio lavoro è molto intimo, ed è esattamente questa l’intimità che cerco: un'intimità inconscia.

Credo che la tua arte possa ispirare conversazioni più profonde tra le persone e l’inner self, grazie all’esempio di esplorazione cruda e intima di te stessa, in modo vulnerabile e, allo stesso tempo, estremamente potente. Cosa ti spinge a continuare ad esplorare questi temi e quali sono i cambiamenti che vorresti vedere nel collettivo?
Credo fermamente nella possibilità di cambiamento. Non penso che possiamo salvare il mondo, poiché ciò richiederebbe un cambiamento estremamente rapido che probabilmente non sarebbe duraturo, e sarebbe anche un pensiero molto arrogante. Continuo a credere nella nostra capacità di crescere nell'amore e nell'empatia. Finché vivo, devo credere, perché tutto collassa quando smettiamo di credere. È anche una responsabilità che deriva dal privilegio. Il mio privilegio consiste anche nel sentire di sapere perché sono qui, di percepire una necessità di agire, condividere, esplorare ed esprimere, e di essere in grado, in vari modi, di farlo. Quindi mi sento responsabile, perché è un dono e devo condividerlo. Vorrei che tutti potessimo sentirci responsabili — verso gli altri, verso noi stessi e verso il mondo. Non responsabili in un senso gerarchico, ma con la comprensione che siamo tutti co-dipendenti e che, ad un certo punto, la nostra illusoria e protetta individualità potrebbe crollare a causa degli stessi strumenti che abbiamo usato per costruirla. Questo è anche un processo di de-oggettivazione dei nostri corpi, del nostro essere, un cambiamento nei nostri valori e una demistificazione del materiale. Fotografie di Francesca Battaglia Traduzione di Giovanna Gallace