Amarə si definisce “forse un collettivo”, sicuramente transfemminista, nato a Roma circa un anno e mezzo fa, nell’autunno del 2022. Una delle versioni della storia narra di tre amiche che si trovano a bere una birra troppo calda in un torrido pomeriggio anch’esso troppo caldo per essere fuori stagione. Una di loro è una fotografa che cattura immagini di corpi femminili scomodi o in lotta ma non le piacciono le gallerie e la dimensione dell’arte borghese, in quanto ambienti elitari spesso e volentieri legati ad aziende militariste e/o ecocide e/o ad istituzioni che condonano la violenza di genere e perpetuano sistemi di oppressione e sfruttamento classisti, sessisti e xenofobi. Le altre due si trovano in accordo con la loro amica e ritengono che certi messaggi, certi corpi, andrebbero schiaffati in faccia alla gente che cammina frenetica in questa città sull’orlo di una crisi di nervi:
“E allora stampiamole giganti e andiamo ad attacchinarle di notte!”
Ecco la loro storia più o meno è iniziata proprio così. “Poi molte cose sono cambiate da allora, ma la spontaneità del gesto e la follia dell’impeto ci caratterizzano ancora” – raccontano. Amarə infatti realizza progetti di public art intervenendo nel paesaggio urbano attraverso l’attacchinaggio di immagini grandi e disturbanti che hanno come soggetto donne “scomode” e identità che occupano la posizione del margine nella nostra società.
Ma voi chi siete? “Sicuramente non siamo artiste ‘da manuale’, né militanti di mestiere. Siamo un misto atomico di amicizie di lunga data e perfette sconosciute aggregatesi seguendo una visione confusa ma tenace. Alcune di noi sono architette, altre bariste, altre doppiatrici, altre ancora cuoche, altre madri e artiste. Abbiamo un gruppo in numero variabile che va da quattro a venticinque donne. Abbiamo tra i venti e i quaranta anni. Siamo romane di nascita o di adozione ma Roma, una certa Roma, è sicuramente una di noi. Ecco, il rapporto con questa città, a volte Babilonia, a volte vetrina per le vasche di turisti, ci influenza profondamente e ci dà tanto su cui riflettere.”
Le città in cui viviamo sono pensate, create e costruite da uomini cisgender bianchi abili a misura delle loro necessità, sensibilità ed estetica. Questi parametri diventano norma ed egemonia a tal punto che qualsiasi corpo subalterno a questa categoria si può sentire spesso ospite dello spazio pubblico, non a suo agio ad attraversarlo e non in diritto di occuparlo. Ed è così quindi forte e urgente il bisogno di mettere in discussione questo sistema occupando spazio, riprendendosi i quartieri, manifestando per le strade e attraverso qualsivoglia altra modalità a disposizione delle categorie marginalizzate. In questa cornice, Amarə “contribuisce al racconto di un territorio diverso, abitato da mondi in conflitto, attaccando il triste immaginario del decoro, del perbenismo e del pudore legato ai corpi conformi”.
Le foto apparse nelle strade di Roma negli ultimi mesi danno luce e spazio a coloro cui viene oscurata la risonanza e la rappresentanza per paura della differenza minacciosa dei loro corpi. Questi ultimi sono quindi simboli di lotta, manifesti di resistenza, materializzazioni di un’energia che avanza e ancora atti di autodeterminazione che si guardano, si abbracciano, si spronano, supportano e alimentano a vicenda creando una rete di coraggio e di forze generative che mettono in discussione la città a misura di uomo. In un momento storico, in cui la politica del nostro paese sembra rappresentare sempre più una minaccia per i nostri diritti, i poster di Amarə, imponendosi “dove non vogliono che il nostro grido di lotta disturbi”, sono il promemoria di un fermo-immagine contro-narrativo che “restituisce alla città un luogo che rispecchi il presente che vogliamo”; come post-it indicatori di punti di forza fermi, fissi, necessari e possibili che irrompono nella città a fianco di tutti i corpi in lotta contro il patriarcato.
E cosa fate? “Innanzitutto facciamo un gran casino. Siamo chiassose, disturbiamo, creiamo caos, facciamo crollare le certezze e combattiamo ogni forma di prevaricazione attraverso l’arte perché la nostra arte è la nostra resistenza. L’arte ci permette di usare gli strumenti della meraviglia e della bellezza per parlare di potenza e sorellanza e di dare forma alle emozioni: ora proviamo rabbia e complicità. Cosa significhi essere donne l’abbiamo imparato strada facendo in un susseguirsi di esperienze e colpi duri. La nostra idea di donna -non necessariamente biologica ma sicuramente sotto attacco- è in conflitto con quella di chi ci amministra, di chi ci uccide, di chi ci sottovaluta. Siamo in appoggio sia alle singole persone che alle realtà progettuali che si muovono a fatica ma coraggiosamente lottando nello spazio urbano per cambiare i destini di molti, in perfetta controtendenza con chi ci governa.”
Attacchinando in giro per diversi quartieri della città le foto delle operatrici del centro che indossavano le maschere da Luchadorəs, sono schierate al fianco del centro antiviolenza romano Lucha y Siesta, che la nuova giunta di centrodestra della Regione Lazio voleva chiudere appigliandosi ad un processo di occupazione di suolo pubblico che risaliva al 2008. A dicembre nel quartiere di Quarticciolo hanno attacchinato foto di bambine palestinesi che hanno fatto parte del progetto Boxe contro l’assedio della palestra di pugilato popolare di Gaza che ad oggi non esiste più, insieme alla maggior parte delle persone che la frequentavano. L’opera più grandiosa e soddisfacente è quella dell’affissione di una fotografia di una donna in lotta, letteralmente grande come un palazzo, sulla facciata di un palazzo della frequentatissima piazza di Trastevere nel centro di Roma.
Lo scorso 8 marzo e l’ultimo 25 novembre sono scese in piazza a fianco di NON UNA DI MENO incollando corpi per la città a monito che anche se la manifestazione finisce “noi da lì non ci muoviamo”. E poi “gli attacchinaggi durante i cortei che hanno tutto un altro sapore, sono più incazzati e decisi; dove ci sentiamo protette da persone complici e affini e dove l'immagine prende un altro valore perché contestualizzata nella massa che si muove e che la trasforma passo dopo passo”.
Ogni foto e ogni momento di attacchinaggio in giro per la città, che sia di notte o di giorno, hanno una loro storia dietro: dal parroco che chiama la polizia all’esercente che fa a brandelli il poster che viene prontamente riaffisso a pezzetti in giro per il quartiere. Fotografie alte e larghe tra i sette e otto metri, tanta colla, qualche scopa, dei trabattelli pericolanti e una moltitudine di donne unite che con resilienza si re-inventano operaie, carpentiere, streghe e spazzacamini, mettendo a lavoro capacità che non sapevano di avere. Con l’obbiettivo ultimo e profondo di alimentare le possibilità di dialogo su temi come l’aborto, il femminicidio, la libertà di scelta e autodeterminazione dei corpi, la divisione sessuale dei ruoli, la svalutazione sistematica del lavoro affettivo e di cura, il razzismo e l’impoverimento del discorso sul conflitto tra i sessi, il desiderio è quello di moltiplicare le autrici delle foto e le città dove vengono incollate così da mettere in moto un meccanismo di pratiche virali e di contro-narrazioni che si impongano sullo spazio pubblico e la sua impaginazione stereotipata.
“I nudi a quanto pare fanno ancora scandalo nella città dei papi e sollevano i sopravvissuti spiriti censori seicenteschi, che se potessero riappiccherebbero le pire a Campo de Fiori. E questo rende tutto ciò che facciamo ancora più divertente e più necessario.”